Giraiole venivano chiamate le gabbrigiane che giravano per i paesi a comprare la merce da rivendere a Livorno, caratteristiche nel loro portamento e nel modo di vestire e diventate oggetto di molti quadri dei pittori dell'epoca.
Ne racconta chi le ha ancora conosciute, Euro Giusti del Gabbro: "Le giraiole erano di due specie: alcune di loro, nel giro che facevano, compravano la merce che poi rivendevano mentre le altre barattavano i prodotti propri come frutta di stagione, fiori spontanei, piante officinali come rosmarino, salvia, spigo, finocchietto e aglietto selvatico, e tant’altro, oppure facevano lo scambio con le cose fatte in casa: durante l’inverno lavoravano a maglia facendo calzini e camiciotti di lana di pecora (i camiciotti per l’estate erano di lana merino che fortunatamente bucava di meno!). I gomitoli di lana venivano comprati a Livorno, oppure dal Castagni qui al Gabbro: lui aveva un negozio di “pannina” dove le famiglie compravano il famoso corredo per lo sposalizio, sia ai figli maschi che alle femmine, e potevano pagare piano piano.
Alcune di queste giraiole le ho conosciute, e anche se ero piccolo me le ricordo bene. Una di queste era una donnina che chiamavano "la Tripola".
Poi un'altra la chiamavano "la Concezione": era una bella donna che si guadagnò questo sopranome perché, caduta dal calesse e distesa per terra, alla gente che la soccorse apparve bella come la Madonna della Concezione e questo sopranome le rimase; il vero nome era Ines Pozzi. Lei in più vendeva le chiocciole che, al dire di noi ragazzi, faceva fra le vecchie tombe del cimitero del paese.
Un’altra giraiola di cui posso raccontare attraverso i ricordi del mio babbo Brunetto è la mia nonna paterna che non ho avuto la fortuna di conoscere: si chiamava Gianfaldoni Predicanda, classe 1870. A dire del mio babbo era una delle più fortunate perché oltre a portare cacciagione, erbe officinali e prodotti di stagione del proprio terreno, aveva il baroccio e così faceva anche la vetturina portando a Livorno altre giraiole che si poteva permettere di pagarle il comodo viaggio. Altrimenti questi andavano a piedi, con il carico in capo e in braccio.
Mia nonna in questo modo "faceva la giornata", cioè portava a casa due spiccioli, faceva spesa a Livorno per tutta la famiglia (marito e tre figli maschi), e recuperava qualche giornale dei giorni passati. Il sabato e la domenica teneva un suo banchetto che all’epoca stava in Piazza della Chiesa; vendeva caramelle, dolciumi e i famosi "mangiaebevi" (che non ho mai capito cosa fossero), cocomero quando era la stagione, e tant’altro: tutto questo secondo i racconti di babbo Brunetto. E siccome sapeva leggere, metteva quattro seggiole sotto l’albero e leggeva i giornali recuperati a Livorno, radunando così un gruppo di gente di tutte le età che passava quei momenti di riposo aggiornandosi sui fatti locali e sugli avvenimenti importanti nel mondo. Con quel banchetto racimolava qualche spicciolo facendo conversazione…. oggi si direbbe facendo cultura.
Nel 1950-60, le giraiole che ho conosciuto e che ricordo benissimo, più o meno fortunate, partivano dal paese avanti il levar del sole; alcune a piedi, altre con la bicicletta da trasporto che tenevano nel corridoio in comune della casa dove abitavano, con un portabagagli davanti e uno dietro. Non erano certo di lega leggera: era già pesante spingerle, figuriamoci pedalarci lungo le strade poderali dell’epoca, non inghiaiate, d’inverno con mota e pozzanghere e d’estate con dieci centimetri di polvere. Lasciavano la bicicletta nei punti più comodi e poi andavano da un podere all’altro a piedi con la canestra in capo e con il paniere o le borse di paglia in braccio.
Di loro, Dilva Bertocchini e Dina Chiesa detta “di Palanche”, andavano nella zona di Orciano e Iva Luziani andava fino a Santa Luce, sempre con la bicicletta. A ritorno li aspettava la famosa salita del Gini che andava dalla Via Emilia al paese. A volte dormivano dai contadini, o per il tempo che poteva essere brutto o perché il giro era troppo lungo. Iva Luziani era una delle ultime giraiole, se non l’ultima: si era motorizzata con un Ape Piaggio e poi aveva un grosso pollaio proprio; aveva seguito l’evoluzione dei tempi arrivando ad avere comodità e produceva materia prima.
Iva Fantozzi e Concetta Malanima (detta Concettina) andavano invece fino a Lorenzana e oltre. Avevano un punto in località Greppioli dove in un ora stabilita veniva loro incontro il marito di Iva, Dino Grassi “di Bozzolino”, con il calesse. Caricava la loro merce e se era troppa le donne proseguivano a piedi dietro il calesse.
Poi c’erano anche Emilia Pierazzini, mamma del famoso Bagaìno, noto personaggio del Gabbro, e Leda Bagnoli che viveva sola e aveva ereditato il mestiere di giraiola dalla mamma: loro, a piedi e con qualche coincidenza di pullman, andavano nella zona delle Badie e Castellina.
Negli anni 60, finita la mezzadria, con lo spopolamento delle campagne e il cambiamento dell’agricoltura, cambia anche la commercializzazione dei prodotti. L’Olanda, e subito dopo l’Emilia Romagna, mettono su i primi grossi allevamenti di polli e galline ovaiole. Uova e polli provenienti di lì arrivavano al Gabbro con un camioncino guidato da un ragazzo di cui non ricordo il nome. A una cert’ora del pomeriggio si fermava davanti a casa mia in via delle Capanne dove abitavano Dina, Dilva e altre giraiole, e scaricava quei polli e quelle uova da allevamento.
C’era sempre una nicchia di cittadini che ambiva al pollo ruspante le cui carni saporite rimanevano attaccate all’osso e alle uova sporche del contadino (oggi direbbero che polli così sono malati e che uova sporche fanno male… i tempi sono veramente cambiati!), e alcune giraiole si erano fatto furbe sfruttando il momento.
In quel periodo la mia famiglia vendeva il latte ed io lo portavo nelle case del paese e quindi mi capitava di vedere che queste giraiole avevano tre ciotole sul tavolo di cucina: una con della mota, una con granturco, e una con grano. Vestite con il tipico grembiulone, passavano i piedi del pollo nella mota, gli riempivano il gozzo di granturco e di grano, e sporcavano pure le uova. Così il pollo allevato in batteria e spennato a macchina ritornava a sembrare un buon ruspante e dava a quella nicchia di bongustai, clienti delle giraiole, l’illusione di assaporare il “fu” pollo di campagna. Ma questa storia non durò a lungo.
Alla fine il mondo cosiddetto moderno ha fatto scomparire un mestiere che da generazioni si tramandava di madre in figlia e in nuora, e a noi oggi sono rimasti solo i bei quadri dei famosi macchiaioli e le statue nel mercato coperto di Livorno che testimoniano l’andirivieni fin là delle giraiole gabbrigiane."
Visita il sito del Parco Culturale di Camaiano
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